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Maledetta sveglia, che suona sempre d’improvviso senza che nessuno ti avvisi per tempo del suo imminente urlo spaventoso. Sono cinque anni che alle quattro del mattino il suono metallico della radiosveglia mi scuote i sensi, addormentati tra le lame di sogni irreali, per farmi tornare alla vita e prepararmi per tempo a dare un nuovo buon giorno alla luce che si sveglierà molto più tardi di me, per rischiarare gli anfratti di questa terra, condannata ad essere calpestata da chi porta la pace imbracciando un fucile.
A quest’ora il mio angioletto chissà cosa sogna; chissà se mi pensa e si chiede dov’è il suo papà, a cui ha detto di stare giù, come fanno i gatti, per non farsi ammazzare dagli uomini cattivi... Un angelo di figlio. che suo padre vede crescere attraverso le foto, sente la sua voce cambiare ad ogni nuova telefonata e si maledice, quando non può dargli il bacio della buonanotte, prima di andare a dormire o fargli una carezza quando ha la febbre o sogna brutte cose. Un padre, quest’uomo, che pensa ad occhi chiusi, parla da solo, ed è in una terra lontana ad imporre rispetto e assicurare futuro per tutti, perdendosi il privilegio di sedersi a tavola per cenare insieme alla sua famiglia. Un padre, che un tempo è stato figlio di una terra di scogli neri e vicoli stretti, che lo ha lasciato partire senza neppure provare a fermarlo, perché non aveva nulla da offrirgli e ha benedetto la sua scelta di vestirsi il futuro con una divisa. Una terra ingrata, quella lasciata, che però resta dentro e diventa nostalgia sempre più forte ad ogni nuovo ricordo, mentre si cammina tra macerie e volti disperati di bambini, che non hanno mai visto il mare. Un padre, io, ma anche marito di una donna che non so cosa è costretta a nascondermi o sopportare per una vita che si aspettava di interpretare in modo diverso, e non certo da reclusa in casa e abbandonata ai ricordi, come una vedova che non può però neppure ostentare un lutto per farsi compatire, invece che fingere di sorridere a quella odiosa domanda, di chi la incrocia per strada e le chiede: “quando ritornerà Michele?”.
Me lo chiedo anch’io quando lascerò questa terra per tornare tra la mia gente e la mia famiglia.
Quanti pensieri di primo mattino. Ma è ora... Mi stanno aspettando.
Mentre cammino a passo veloce lo sguardo insegue la mia ombra riflessa sui vetri delle finestre e ci trovo un uomo vestito da soldato, che si muove tra gli aliti gelati di un vento invernale che non vuole passare.
Nella sua marcia ritmata sul selciato questo soldato si domanda ogni giorno se mai finirà questa missione, in un posto di fuoco e fiamme, e se mai è giusto che per arrivare alla pace ci vuole ancora la guerra.
Che bello che è il cielo anche qui. La notte è ai saluti finali, all’orizzonte il sole inizia a stiracchiare i suoi raggi per fare luce tra le ombre e, finalmente, non piove. Lo ha fatto per una settimana intera e la polvere è diventata fango e melma pesante da trascinarsi addosso sugli stivali.
Anche la luna è ancora accesa, sembra che non voglia saperne di andare a dormire, ma è stata messa in castigo per troppi giorni, come un bambino capriccioso a scuola, dietro la lavagna di nuvole ad ascoltare i boati in lontananza, senza però poterli vedere: una spettatrice assente. Ma quante facce ha la luna? E quante lune vede il mondo con mille facce diverse?
Il mondo... Chi ha detto che è un posto bellissimo da abitare? L’odio e la rabbia seminano bombe e ammazzano interi popoli nel nome di una giustizia fatta di fanatismo, e non c’è gusto a svegliarsi ogni nuovo giorno con la paura di non sapere come arrivare a sera o finire su una mina e trovarsi nella folla da far saltare in aria, per manodi un uomo travestito da bomba. Mio padre mi ha sempre detto che l’odio fa male solo chi la cova dentro… ma forse lui non è mai stato in posti come questo, dove anche a guardare un bambino ci vuole coraggio. Coraggio a farlo sorridere o fargli credere davvero che noi siamo qui per lui, per il suo domani… mentre non mi capisce e muore di fame.
Un bambino. La sua tenerezza è così disarmante da queste parti che non sai mai quale sentimento scegliere per provare a stargli accanto e dedicargli un sorriso. Loro sono così ingenui da credere davvero che noi siamo gli eroi venuti dal cielo per salvarli.  
Come vorrei che il mondo fosse un posto abitato solo da bambini. Non ci sarebbe più l’odio, la rabbia e l’inganno. Tutto sarebbe vissuto con meno arroganza. Basterebbe poco per tornare felici… una carezza, una promessa… un gelato, che da queste parti non sanno neppure cosa sia!  
Ma perché vogliamo diventare grandi a tutti i costi? Perché nessuno ci spiega che c’è un’età che non torna più, ed è quella in cui sei protetto, al sicuro da rischi problemi di cibo, sopravvivenza, malattia e paura di morire, perché c’è sempre qualcuno che si prende cura di te? Sempre?!  No! Non dappertutto.
Qui, per esempio, non è così. Qui ci sono bambini abbandonati sulla strada che non hanno più lacrime per piangersi una mamma, vista inghiottire da un boato di chissà quale attentato. Poveri angeli senza un Paradiso in cui abitare.  
La verità è che noi vogliamo solo correre e divorare le cose senza mai assaggiarle prima. Se tutto fosse all’incontrario non andrebbe meglio? Iniziare morendo, per sentirsi sempre meno anziani nei movimenti e nei pensieri, per poi raggiungere il tempo in cui sei un seme che muore nel buio di una tana, con la certezza di sapere quanto hai vissuto e qual è il tempo che ti è permesso di consumare nella vita?
Sarebbe bello, sì!  Se potessi chiedere un miracolo a Dio, vorrei che invertisse i flussi della vita per un po’, capovolgendoli all’indietro, così che tanti uomini, soprattutto i prepotenti, imparassero di più ad apprezzare le piccole cose, gli spazi degli altri, le ragioni di ognuno; tanto sai già qual è il tuo tempo e quando morirai, inghiottito da quel buio che ti avvolge e ti riporta dietro le nuvole, come la luna delle ultime notti.
E’ già giorno, oramai. All’orizzonte la luce del mattino rischiara in lontananza ed io dovrò trovarmi pronto a ispezionare il vuoto, il silenzio… il nulla, che può trasformarsi in una imboscata mortale.  
Quando arrivo al punto di raccolta ci trovo due colleghi che mi aspettano. La mia squadra: i miei compagni di pace.  
Quello che mi saluta per primo è Mario, un bravo ragazzo, figlio di pescatori che viene da Napoli e l’altro, sempre con una sigaretta tra i denti a farsi bruciare il fiato, è Dino da Lecce, che non si perde mai l’occasione per avvilirci gli entusiasmi con le sue infinite paternali sull’errore della guerra, gli sbagli di queste missioni e le maniacali inchieste sui costi che polverizza una guerra.  
«Ciao ragazzi», li saluto  indossando un falso sorriso ed un’aria riposata sul viso. Ma so di mentire con loro e a me stesso. Mario, fosse per lui, inizierebbe già a parlare. È un’enciclopedia di parole, sputate fuori come un mitra a velocità sorprendente e senza mai perdere un colpo. Devi fermarlo per fargli riprendere fiato.  Ma stamattina ci pensa Dino a stoppargli le parole in gola con una mano alzata ed un ordine al silenzio: lo impone la ragione che alle sei del mattino nessuno è disposto ad ascoltare Mario e le sue leggende sui Talebani e quanto altro si fa raccontare dai ragazzini che incrocia per strada e saluta con un sorriso e qualche caramella.  
Mario è un ragazzo solare, con i suoi ideali da difendere ed un sogno da realizzare: sposarsi con Margherita appena finirà questa ennesima ultreiore missione di pace. E’ un cuore d’oro, che crede davvero che da queste parti si possa ricostruire una dignità, ma si scontra continuamente con Dino, uomo all’opposto, severo con se stesso e gli altri, che ha lavorato nei campi di terra rossa a raccogliere olive, e quando si è stancato di continuare a farlo non ha trovato niente di meglio che indossare una mimetica e guardare tutti con una faccia da duro.
Loro sono i miei due amici più sinceri in questo luogo lontano. Sono le mie spalle, i miei occhi da dietro e la mia sopravvivenza. Quando si è lontani da casa ci si aggrappa ad ogni speranza e un viso diventa familiare, intimo, addirittura fraterno.  Voglio bene a Dino e Mario, anche se sono due idee completamente diverse che si scontrano continuamente, nel gioco del destino che li vede insieme, gomito a gomito, su un blindato a coprire le spalle all’altro, per il dovere di un ordine e il diritto di un aiuto vitale.  
«Ma ci pensate ragazzi? Sono dieci anni che siamo sbattuti quaggiù. Ma quando ci mandano a casa?» impreca Dino al cielo e contro i nostri visi ancora assonnati e increspati dal gelo dell’alba.  
«Ma tu ogni mattina devi avercela sempre con qualcuno?» lo rimprovera Mario, stanco di sentirgli dire sempre le solite parole ad ogni inizio turno.  Poi, nel silenzio di una replica che non si fa sentire, e per la voglia di non voler frenare l’urgenza di continuare a parlare, Mario prosegue a riprenderlo: «Io non ti capisco. Cinque anni qui in prima linea e sempre la stessa musica. Se non ce la fai più, torna a casa. Torna dai tuoi.»
«Fosse per me, ci sarei già tornato a casa. Ma dal comando non me lo permettono. Devo finire questa campagna per guadagnarmi i gradi da sergente e poi saluto tutti e me ne fotto di tutto quello che succede qui, tanto…»  
Dino non completa la frase. Qualcosa dentro lo obbliga a mantenere il silenzio. Tacere. Non andare oltre.  
Ci pensa Mario ad istigarlo per completare quella frase troncata, che lascia tutto in sospeso, come su un filo in equilibrio: «Tanto, cosa?»  
«Tanto… niente» ribatté stizzito Dino, tentando di chiudere la discussione in quel punto esatto, su quell’avverbio a disposizione di chi vuole adottarlo per completare il concetto a suo modo.  
«Sempre così fai tu. Frasi a metà, cose non dette fino in fondo, parole senza senso. Sai la verità qual è? Tu sei un insoddisfatto a vita.»  
Dino non gradì l’attacco. Non era nella sua mattina migliore e non si tirò indietro per prendersela con il suo amico di missione, che per tutto il tempo rimase ad ascoltarlo sfogare la sua rabbia, repressa per troppi anni e mai saputa tirare fuori per tentare di alleggerirsi di un peso terribile ammassato sul cuore.
«Tanto è inutile stare qui. Non saremo certo noi a portare del bene a questo popolo. Non si porta la pace senza amore. Non si può essere in una missione di pace se siamo chiusi in un blindato e ci è stato ordinato di sparare ad ogni rumore sospetto. Tu davvero credi che noi siamo qui per imporre una tregua alla sofferenza tra questa povera gente?»  
«Sì», ribattè convinto Mario.  
«E sei un povero illuso», sbottò stizzito Dino.  
Durante quell’accesa disputa d’ideali mi estraniai volutamente, impegnando la mia attenzione a posizionarmi al volante del blindato e mettere in moto. Caricai la mappa di percorso di giornata sul navigatore satellitare e aspettai che mi fosse impostato il tragitto. In quell’attesa assaporai fino in fondo il peso opprimente di quel silenzio tra i miei due colleghi: erano due duellanti, spalla contro spalla ad aspettare la conta dei passi e poi… farsi fuoco con parole e rimproveri.
Provo a spezzare la pesantezza di quel momento improvvisando una riflessione ad alta voce: «Ieri ho ascoltato una trasmissione che parlava di noi, del contingente in missione a Kabul. Dall’Italia si parla spesso dei numeri che siamo diventati e si domandano se ha un senso restare qui, se da quel dannato 7 ottobre del 2001 sono morti 25 mila guerriglieri e 11 mila civili afgani. Undicimila persone che non c’entrano niente con questa guerra e si aspettavano che noi li aiutassimo a tirarsi fuori dalla tirannia, e invece si ritrovano sotto terra.»  
«Ogni guerra ha le sue vittime.» sancì Mario con una voce sottile, da sembrare umiliata per quella verità.  
«Non fare il profeta, che non ti viene bene», e adesso la voce di Dino era seccata, quasi da richiamo. «Tu dimentichi un dettaglio: quegli 11 mila morti non sono solo un numero, ma un’agghiacciante verità. Tre mila sono morti per mano dei talebani, ma settemila per colpa degli alleati, quelli che dovevano aiutarli e salvare.»
Mario non trovò forza di giustificare quel numero di morti per errore e perché fossero un legittimo e inevitabile prezzo da pagare per arrivare ad estirpare il male alla radice.  
Ma in quel tentennamento fu lasciato spazio a Dino per proseguire nel suo soliloquio.  «Ma quello che mi fa rabbrividire è il numero totale di morti per questa assurda guerra. Perché se sommo i soldati ai poliziotti, ai guerriglieri e i civili, il numero diventa spaventoso: 40 mila morti, Mario… riempi uno stadio di morti. Noi siamo la pace! Ci pensate? La pace, con fucili e cannoni! Noi porteremmo la pace insegnando a difendersi dai guerriglieri ed addestrare le persone civili ad ammazzare?» si sfogò Dino tutto in un fiato, al limite della collera per quel volerlo ribattere a tutti i costi e convincerlo che quel maledetto numero era inevitabile.  
«Noi siamo qui per insegnare a pescare, non per distribuire pesci. Noi non siamo l’ONU. Non facciamo beneficenza. Siamo qui per offrire una possibilità a questa gente di educarsi a respingere qualsiasi rischio di tornare indietro nel tempo, quando una donna veniva lapidata se solo parlava con un estraneo.»  
Ma a Dino le ragioni di Mario non interessavano. Lui aveva le sue e non gli bastava tenersele dentro per sé, voleva urlarle al mondo.  «Pescatori o no, io so solo una cosa: questa guerra continua nel silenzio e l’indifferenza. Dieci anni fa era giusto iniziarla perché qui c’era un dittatore, armi di distruzione di massa e si dava rifugio ai talebani. Ma si sbagliavano. Era un errore clamoroso. E nonostante lo abbiano capito tutti, qui si continua a morire. Innocenti muoiono ancora per errore. Ancora si sganciano bombe e si ammazza gente che era a fare festa per un matrimonio.»  
Mario si sentì obbligato a difendere la sua idea sul valore della loro impresa, rafforzando ancora di più quel bisogno di essere lì per dare una speranza a chi vive tra macerie e fame, e lasciò che la voce formasse delle parole senza volerlo per davvero. Se ne pentì un istante dopo, passandosi una mano sulle labbra, come a voler cancellare l’eco di quella sua inopportuna considerazione. Sapeva perfettamente che a sentirlo parlare così il caporalmaggiore sarebbe esploso come lava dalla bocca di un vulcano.  E così fu.
«Bravo», chiosò Dino con un falso complimento di scherno, «parli come chi ci comanda e spara cazzate dalla bocca perché non gli è permesso ribellarsi o dire la verità che pensa. Tu, invece, caro il mio soldatino puoi farlo. Puoi dire di no! Tu non sei nei posti di comando e se ci prende una bomba sotto le ruote salti in aria tu, non quelli che ti ordinano cosa fare, nel nome di un mandato di bontà, restandosene dietro la scrivania al sicuro da tutto e tutti.»  
«Io non capisco perché ti lamenti tanto, perché ce l’hai con tutti e poi stai qui in questo maledetto furgone blindato a sparare, invece di andartene a casa a coltivare la terra o guidare i cortei dei pacifisti che gridano, si indignano ma… restano a casa loro, come chi ci comanda… lontani dal fuoco.»  
«Il punto non è perché sono qui, lo vuoi capire, Mario? Se non ci fossi io, ce ne sarebbe un altro al posto mio. Io ti parlo di quello che siamo obbligati ad interpretare.»  
«Certo, ma non mi sembra una buona ragione personale per rimanerci, soprattutto se ti sta male tutto.» reagì cinico Mario. Dino sembrò dargli ragione con la sola spinta della testa all’in giù. Il gesto però non era una conferma, ma una maledetta paura a lasciare quel posto e tornare dove la guerra diventa solo un ricordo che può uccidere lo stesso.
«Ho paura a tornare alla normalità, perché per noi niente più sarà come prima quando lasceremo queste terre!» confessò affranto in un soffio di fiato Dario, e poi continuò: «Paura di non saper sopportare quello che hanno visto questi occhi. Io sono stato nel carcere di Guantanamo e ci sono notti che mi svegliano gli incubi delle urla di chi è stato martoriato per gioco o perché volevano che dicesse dove erano i suoi amici. Ho visto uomini piangere dal dolore, che imploravano di morire pur di non sopportare più quelle atrocità sulla pelle. Ma che ne sanno i cortei, la televisione e chi ci aspetta a casa e prega ogni notte Dio per farci ritornare sani e salvi? Cosa sanno realmente di noi e di cosa tornerà un giorno a casa di noi com'eravamo?»  
Questa volta Mario non ribattè, lasciando al collega il diritto assoluto di concludere : «Ci sono soldati che quando tornano a casa si suicidano. Vi siete mai chiesto il perché? Dall’inizio della guerra ho letto che ci sono più vittime tra i soldati che ritornano a casa che quelli che restano in guerra. Ed io non vorrei proprio non dover fare la loro stessa fine.»  
Aveva ragione Dario, e il silenzio che seguì ne sancì la conferma per tutti. La mente fotografa le scene della vita, le archivia in una logica tutta sua, e ce le tira fuori quando meno te lo aspetti. Succede così quasi per tutto, tranne che per le scene di dolore: quelle, invece, riemergono facilmente ad ogni minima occasione.  
Io, quanto Mario, questa volta non trovammo parole buone a confortare la pena di Dino. Lui era il primo di noi che era lì al fronte. Era stato in missione nelle prime notti di bombe dal cielo, per poi essere destinato alla missione Isaf. Aggregato ai Marines di prima linea aveva visto il sangue schizzargli sulla faccia; aveva guardato negli occhi l’uomo che ammazzava per difendersi, ed era stato più volte sfiorato dalla morte in attentati kamikaze e auto al tritolo da esplodergli contro.  
«Il tempo aiuterà a dimenticare, vedrai», aggiunsi nella coda di un lunghissimo silenzio, senza convinzione e con l’imbarazzo di aver detto qualcosa di fuori luogo in quel momento.  
«Certo», si lasciò trovare pronto alla conferma Dino, e poi proseguì: «Torneremo a casa e ci dimenticheremo di tutto quello che stiamo vivendo. Ma mi dici come facciamo a non ricordarci di quello che abbiamo interpretato? Io credo che non si sbiadirà fino alla morte!»  E su quell’ultima convinzione, tanto categorica quanto logica, ogni altro discorso tra noi si interruppe definitivamente. Fortunatamente arrivò in soccorso al silenzio che avvolse il blindato, ed occupanti inclusi, l’obiettivo di giornata: un deposito abbandonato da ispezionare e rapportare al comando.
Dopo una perlustrazione visiva ed uno scandaglio termico ci sentimmo pronti alla nostra missione di giornata. Il luogo era segnalato come postazione di rifornimento armi per i talebani. Bisogna solo ispezionare il perimetro e scattare qualche foto all’interno, per poi tornare al comando e consegnare tutto il materiale, che sarebbe servito per pianificare un attacco di bonifica la mattina successiva.  
Un incarico semplice. Nel silenzio… quiete assoluta: anche troppa!  
Abbandoniamo il nostro vtlm e avanziamo a passi lenti in avanti.
Quello a farci strada è sempre Mario. Non perché sia il più coraggioso, ma perché imposto dall’alto. Così hanno deciso per noi, e il caposquadra in esercito non è sempre il più valoroso o temerario di altri.  
Lo seguo, due passi più indietro. Il mio fiato gli fa vento sul collo, mentre alle spalle sento i passi pesanti di Dario che mi fa da scorta e si guarda all’indietro. I suoi occhi da falco ispezionano il nulla in lontananza, oltre il quale si può nascondere il nemico invisibile, l’occhio di un mirino a prenderci di mira e fare fuoco sui nostri corpi da stendere al suolo.  
Sono abituato a questo tipo di lavoro, ma il cuore batte sempre forte in gola. Martella nella testa e mi fa perdere il controllo della situazione. Non dovrebbe succedere per uno che è stato addestrato a domare la paura. Ma non ci si abitua mai al terrore di morire.  
Mario ad un tratto alza la mano. Il suo segnale convenzionale ci obbliga al fermo immediato. Ha avvistato qualcosa o sentito qualcuno.  Il cuore batte ancora più forte adesso dentro al mio petto, come un tamburo da caccia.
La paura alimenta il coraggio di non poter scappare: sei in gioco, in prima linea, e sei pagato per questo…  
Finalmente Mario abbassa la mano: falso allarme. Era poco meno di un sospetto… Proseguiamo.
Siamo davanti ad una porta. C’è l’incursione da compiere; concertiamo l’azione.  
Mario apre la porta, entro io per primo e mi posizione sulla destra, con le spalle contro la parete e la canna del fucile davanti agli occhi miei.  Mi segue Dino, nell’arco di un lampo, e si posiziona sul lato opposto, anche lui spalle al muro ed il fucile a muovere l’aria davanti, a caccia di ombre lontane. E per finire tocca anche a Mario, che deve avanzare a piccoli passi, mentre gli copriamo le spalle.
Arrivati dall’altra parte della parete,  scattiamo qualche foto. Se ci sono delle porte le apriremo, sempre allo stesso modo, sincronizzati come deciso adesso, e poi si va via.  Sarà veloce il nostro compito. Ritorneremo in fretta.
Sono quasi le nove: ho altro da fare. Devo telefonare a mia moglie. Mario deve scrivere alla madre e Dino deve leggersi qualche altro dossier sulla guerra.  Abbiamo tutti da fare stamattina. Faremo in fretta…  
«Mario, apri la porta. Tu, Dino, invece, fai luce che entro per primo.»  comando per tutti.
L’azione è studiata, basta solo eseguirla, ma qualcosa inverte la sequenza e mi obbliga ad indietreggiare, essere l’ultimo della fila.  E' Mario ad afferrare la maniglia della porta, mentre Dino mi chiede di entrare per primo, indicandomi il lato destro che preferisce occupare. Io gli do conferma annuendo con la testa, e mentre il casco mi balla sulla fronte, aspetto il segnale per entrare in azione, restando però indietro, ultimo di quel plotone d’ispezione.  
Ci siamo! La maniglia è abbassata. Faremo in un lampo.  Poi... un boato tremendo… non ricordo più niente… c’è il buio intorno a me, che mi inghiotte e nasconde il mio mondo!

Questo è quanto ricordo di quella maledetta mattina, quando lo scoppio della porta, imbottita di esplosivo, ha cambiato per sempre il destino a 3 soldati italiani in missione di pace.  
Sono qui che ricordo, e lo faccio ogni giorno, mentre mia figlia mi saluta per andare a scuola e mia moglie accenna un sorriso per alleviarmi la pena che non so cancellare dal cuore.  
Lo rivivo ogni giorno, alle 9 precise. La scena è la stessa, la ripeto a memoria: c'è la mano che afferra una maniglia ed apre la porta imbottita a tritolo e... fa in mille pezzi il corpo di Mario.  
Di lui porto dentro la sua grande speranza che le missioni di pace servono a salvare la povera gente. Ma c’è anche Dino, di cui ricordo quella sua paura a ritornarsene a casa e non riuscire a dormire per quanto di orrendo avessero visto i suoi occhi.  Aveva ragione anche lui: ci sono scene che non si cancellano mai dalla mente e ti perseguitano a vita, come una condanna da ergastolo.
Adesso loro riposano tranquilli e vedono tutto da una posizione diversa:; da molto più in alto!
Io, invece, porto dentro l'eterna paura di non saper dimenticare, mentre mi trascino la vita su una sedia a rotelle, per quella porta maledetta, che ogni mattina alle 9 precise si apre, m’inghiotte... e mi da’ in pasto all’inferno!


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