Antonio e suo nipote Gianluca avevano iniziato la loro giornata dedicandosi un abbraccio pieno di felicità, sprigionato con tantissimo vigore dal bambino, alla vista del nonno che era andato a prenderlo a casa in quel giorno di festa. Non capitava spesso, ultimamente di vederli insieme, con Gianluca sempre più impegnato con le tante attività extra scolastiche, proprie di un bambino di 11 anni, e il nonno che trovava sempre meno affascinante uscire di casa per consumare qualche ora tra la gente del suo quartiere o al bar con gli amici a giocarsi a carte un bicchier di vino.
Ma quella domenica era un giorno importante per entrambi; nonno e nipote avevano deciso da tempo di dedicarsi una mattinata tutta per loro, e il 25 aprile era un’occasione perfetta.
«Dove andiamo stamattina, nonno?» domandò con voce commossa dalla felicità Gianluca, appena ripresosi dalla gioia di poter stare insieme al suo miglior eroe.
Antonio, dopo aver fatto finta di pensarci un po’ su, con un bel sorriso, propose: «Cosa dici se andiamo a mangiare un gelato e poi, ti porto in un luogo pieno di storia?»
«Sì», -esplose di contentezza il nipote- «mi porti in un museo, nonno?»
«Non proprio. Ti porto in un posto dove c’è raccolta tanta storia comune. Quella che pochi conoscono. La storia della vita di chi oggi non c’è più. Che dici, ti va?»
«Certo che sì», rispose entusiasta Gianluca, senza fare altre domande. A lui bastava solo restare il più possibile con il suo miglior amico d’infanzia, nonno Antonio, e poco importava dove lo volesse portare quella mattina, purché lo facessero insieme, mano nella mano.
Dopo essersi fermati alla gelateria sotto casa, si incamminarono verso la fermata degli autobus e attesero l’arrivo di quello giusto che li portasse dritti alla meta di giornata scelta da nonno Antonio. Giunti in prossimità di Via Ardeatina, Antonio invitò suo nipote a prepararsi per scendere. «Dove stiamo andando, nonno?» domandò curioso il bambino.
«A trovare il mio papà, ti va?» rivelò l’uomo con un’espressione complice.
Gianluca disse sì con la testa, appassionato dall’inaspettata tappa: «Ma andiamo al cimitero?»
«Sì», confermò lui con voce bassa, quasi non volesse farsi ascoltare da nessun’altro, mentre comprava dei garofani bianchi ad un negozio di fiori.
Oltrepassato un grande cancello di ferro battuto, Antonio si fermò a pochi metri dall’accesso che dava a un mausoleo. Qualcosa lo obbligò a fermarsi lì, come a dover trovare il coraggio necessario dentro di sé per proseguire in quel suo cammino.
Gianluca, non conoscendo il luogo e trovandolo diverso da quello che sarebbe dovuto essere un cimitero, chiese dove fossero. «Dov’è sepolto mio padre», rispose suo nonno con voce insicura.
«Che strano cimitero» commentò a voce alta il bambino.
Antonio non ebbe la forza di ribattere perché un fitto dolore salì velocemente alla gola, al punto da fargli temere di perdere il respiro. Tossì più volte. Poco istanti dopo, però, sentì il dovere di spiegare al nipote dove si trovassero: «Siamo alle Fosse Ardeatine. Un luogo di rispetto, dove sono morte tante persone durante la guerra.»
«Anche il tuo papà?» domandò d’istinto Gianluca.
«Anche lui, sì», confermò Antonio sempre più malinconico nell’espressione del viso e lo sguardo assente, perso tra le tagliole di chissà quale ricordo doloroso, al punto che anche il nipote si accorse di quella tristezza, da sentirsi obbligato a stringere più forte la mano del nonno in quella sua, come a volergli infondere forza e coraggio con quel gesto affettuoso.
Un uragano di dolore travolse Antonio, che ne restò folgorato, lasciandosi immobilizzare gambe e respiro. Le aveva ancora tutte impresse in testa le immagini strazianti: memorie di un’infanzia vissuta nel bel mezzo della guerra, con quei carri tedeschi pieni di uomini, le grida, gli spari ripetuti, il pianto e poi… il silenzio da morte che produce un eco lunghissimo, che certe notti ti sveglia con un incubo e ti fa tremare dalla paura all’idea di quanta disumanità scateni la guerra.
Un nodo alla gola si fece sempre più pressante, al punto da fargli mancare il respiro e impaurirlo. Si passò una mano sul petto Antonio, come a doversi massaggiare il cuore agitato e riprese a camminare lentamente, con al fianco il nipote che continuava a ispezionare con occhi curiosi ogni angolo di quel posto insolito e silenzioso.
Arrivati a meno di un passo dalla grande porta d’ingresso, l’uomo anziano si fermò, guardando per un istante lunghissimo Gianluca. Avrebbe voluto raccontargli ogni dettaglio di quel maledetto 24 marzo del 1944, ma qualcosa gli frenava le parole sulle labbra. Non voleva trasferire al nipote nessun dolore e, tanto meno, riusciva a sopportarla la riesumazione di uno spasimo così forte, che tanto gli aveva segnato la vita, se ancora oggi non lo lasciava tranquillo, neppure per un istante. Ma la mente gioca strani scherzi e si diverte spesso ad accanirsi su quello che vorremmo non venisse mai acceso tra i pensieri. Bastò un attimo, il tempo di un’esitazione, e Antonio tornò bambino, alla stessa età di suo nipote, mentre accovacciato dietro una collinetta seguiva la terribile scena che avrebbe cambiato per sempre la sua vita e quella di tanta povera gente, che aveva una sola colpa da non sapersi perdonare: trovarsi proprio lì, in quel giorno maledetto.
Tutti in fila come a scuola, a gruppi da cinque, per entrare nelle strette gallerie sotterranee abbandonate di pozzolana in Via Ardeatina, una strada messa tra due posti sacri, le catacombe di San Callisto e la chiesta di santa Domitilla: uno scenario perfetto, da sfida a Dio, in quell’eccidio di massa. Tutto era iniziato il pomeriggio del 23 marzo, quando un gruppo di partigiani del GAP aveva deciso un’azione di rappresaglia contro l’occupazione nazista, con un’imboscata che avrebbe dato in pasto alla morte 33 soldati tedeschi, in marcia su Via Rasella, con 18 chilogrammi di esplosivo nascosti in un carrettino per la spazzatura urbana, da far detonare mentre passava il plotone in marcia.
Quell’affronto fu pagato a caro prezzo. La rabbia dei tedeschi mostrò la sua faccia più dura, con una punizione esemplare che servisse da monito, condanna e, soprattutto, vendetta sublime. Un castigo senza precedenti, da far tremare il mondo: quei 33 soldati uccisi meritavano una rivincita e venne scelto il numero per giocare ad armi pari: 10 contro 1. Per ogni militare tedesco ucciso, la sua vita andava compensata con quella di dieci italiani, che furono rastrellati dalle prigioni di Via Tasso, quella di Regina Coeli, dalla strada e ogni altro posto servisse per arrivare a quel raggelante numero: 330 italiani da giustiziare, più cinque, trovatisi lì per sbaglio, ma che erano spettatori non graditi o perché… così pretese la storia di quella sporca guerra.
Antonio era lì, quando portarono nelle gallerie di pozzolana anche suo padre, reclutato dalla galera per essere un membro della Resistenza Comunista. Era stato arrestato insieme ad altre persone qualche mese prima, mentre escogitavano un piano di sovversione contro l’invasore. Aspettava ancora di essere giudicato, ma il tempo era breve e quell’esecuzione punitiva aveva un ordine tassativo da rispettare: immediata!
Antonio, quando seppe dal pianto disperato della madre che il papà era stato obbligato a seguire tutti gli altri partigiani, gli ebrei e i sovversivi antinazisti in Via Ardeatina, si precipitò da lui. Una corsa folle, con il cuore a battergli in gola come un tamburo, ed un grido straziante a richiamare l’attenzione di suo padre: “Papà!!!”, e quello strillo tornò a farsi ascoltare nella mente di Antonio come il grido di una sirena da porto che squarcia il buio silenzioso della notte.
Il padre, quando si accorse di suo figlio, lo obbligò a nascondersi immediatamente. Percepiva che non si sarebbe trattato di una gita quella che stava facendo, e non voleva che Antonio finisse nello spaventoso numero di italiani assembrati fuori delle gallerie.
Fece parte del terzo gruppo, dei complessivi sessantasette turni di esecuzione; entrò a capo chino all’inferno e dopo soli due minuti, a loro seguì subito un altro quintetto, e poi un altro ancora… e ancora un altro… e così avanti, fino alla fine!
Quella selvaggia serie di esecuzioni sommarie durò fino alle otto della sera, quando alcuni soldati tedeschi minarono gli accessi alle gallerie e fecero esplodere le cariche sbarrando ogni entrata alla fossa comune di morte. Il colonnello Kappler con quell’atto finale era convinto di riuscire a seppellire corpi, storia e possibilità di riesumare la barbaria inaudita. Ma alcuni monaci salesiani, guide delle catacombe, presenti nelle vicinanze, udirono le forti esplosioni, dopo aver assistito a quel frenetico movimento di automezzi tedeschi nella zona ed allertarono la polizia e il Vaticano.
Quando, quattro mesi dopo l’eccidio, furono riaperti gli accessi a quell’inferno diabolico, i 335 cadaveri furono trovati ammassati in gruppi alti oltre un metro e mezzo, con l’odore della morte che arrivò fino in cielo, a Dio, che quel 24 marzo del 1944 si era sicuramente vergognato di quanto odio esistesse tra gli uomini, lasciati liberi da sempre di amare o disprezzare… rispettare o umiliare, uccidere o trucidare senza alcuna pietà!
Qualcosa portò Antonio di nuovo al presente, spegnendo ogni ricordo di quel funesto sterminio. Era la voce di suo nipote, rimasto sospeso, come un acrobata su un filo, sull’ingresso alle cave senza capire se si potesse avanzare o ci si doveva fermare lì.
Il nonno, per quanto fosse andato già mille altre volte in quel posto a pregare in silenzio, non aveva mai trovato il coraggio di oltrepassare la soglia dell’inferno, e ritrovarsi nel luogo esatto dove suo padre, settanta anni prima, ci era entrato per un’unica volta, una soltanto, quella del per sempre… del “senza più ritorno”.
Gianluca, per l’istinto della curiosità provò a tirare per la mano il nonno così da farlo avanzare ed entrare nel sacrario, ma Antonio sembrava inchiodato all’asfalto. Provò anche a parole a scuotere il nonno: «Perché non entriamo?» ma sembrò non bastare. L’uomo era in preda al timore di non saper reggere la commozione che gli avrebbe provocato trovarsi davanti a quella lapide grigia con sopra scritto il nome e cognome di suo padre. Disse di no con la testa e tornò sui suoi passi, indietreggiando lentamente. Poi tentò di motivare anche a parole quell’arresa: «No. Non ci sono mai entrato lì dentro.
Mi sono sempre fermato sull’uscio per destinare una preghiera a mio padre e quanti altri hanno subito quell’orribile morte, ma non so oltrepassare questo confine.»
Come poteva avanzare tra quelle fila lunghissime di lastre di marmo, sotto le quali c’erano raccolte ossa, o già ceneri, di chi si era visto strappare alla vita da un martirio di guerra? Come avrebbe retto il suo cuore all’emozione di fermarsi per la prima volta ai piedi di quella che era la casa di suo padre da settant’anni? Come poteva deludere suo nipote, che voleva invece entrare? Mille pensieri, come bombe lanciate in un cielo di guerra, torturarono la mente e la coscienza di Antonio che alla fine, per il timore di scontentare il piccolo Gianluca, decise di farsi trainare dentro quell’inferno, dove regnava il silenzio della morte e ristagnava ovunque la crudeltà della guerra. Lentamente i suoi passi avanzavano nella penombra di gallerie cupe, che erano state l’accesso alla morte per 335 persone. Arrivati in fondo al corridoio, dove un cartello indicava che in una grotta transennata c’erano ancora resti di ossa umane non identificate, Antonio accusò un brivido lungo la schiena che gli ghiacciò il sangue nelle vene. Voleva scappare, correre il più lontano possibile e lasciarsi dietro quell’orrore che faceva mancare l’aria nei polmoni. Gianluca chiese qualcosa, ma il nonno non era nelle condizioni di rispondere… non in quel momento.
«Andiamo via, ti prego», riuscì a farfugliare al bambino, e si allontanò da quell’angolo d’inferno. Arrivati al bivio che lasciava scegliere se proseguire per le tombe o andare via dal mausoleo, Antonio con decisione si spostò verso l’uscita, ma Gianluca gli trattenne la mano: voleva continuare. Era una prova al limite della sopportazione per suo nonno, ma non poté esimersi dall’accontentare il bambino. Era stato lui a portarlo lì e non poteva sottrassi adesso. Con poco fiato in gola ed un dolore fitto al centro del petto, avanzò nell’abisso dei suoi ricordi fiancheggiando i filari dei loculi marmorei.
Ad un certo punto, il bambino, attento a leggere ogni nome scorresse ai suoi lati, si fermò davanti alla lapide di Gianluca Spina: «Ha il mio stesso nome e cognome questo signore. Può essere il tuo papà?» domandò Gianluca, rivolgendosi al nonno.
Antonio rispose senza parole, sospirando pesantemente dentro di sé e chiudendo ripetutamente gli occhi, come a dover frenare le lacrime che si affollavano a voler uscire. Era proprio suo padre quello che un nome ed un cognome chiedeva di commemorare. Era sepolto lì il suo eroe.
Era suo padre quello a cui Antonio, per la prima volta da quel lontano 1949, anno in cui venne aperto il sacrario, stava riservando la sua intima preghiera restandogli accanto, a due passi da lui.
Era suo padre… quello che settant’anni prima qualcuno avevo deciso di far partecipare ad un gioco crudele, che non ti fa vincere nessun trofeo, ma ha l’obbligo di fartene prendere parte per raggiungere una somma, che grazie a lui raggiunge DIECI e co mpensa la morte di UNO soltanto, per una vendetta che nessuno avrebbe più dimenticato, nonostante chiunque di quei poveri 335 ostaggi della rivincita, un attimo prima di morire, nel chiudere gli occhi si sarà sentito maledettamente solo, dimenticato da tutti, ed avrà pensato alla propria famiglia, al proprio Dio e ai propri amori, come forse Gianluca Spina avrà fatto con suo figlio, lasciato solo per il mondo, che dopo settant’anni è ancora lì, in quel giorno di festa e pianto, a portargli un fiore e ricevere in cambio una nuova lustrata di pena su quella inutile medaglia, consegnata qualche anno prima in memoria ad un martirio di guerra, conficcata non sul petto ma al centro del cuore, che ogni volta che ritorna ad affacciarsi su quel penoso ricordo lo fa sanguinare di dispiacere, per colpa dell’atrocità disumana che la guerra scatena tra gli uomini, e non ha mai motivo e ragione di esistere, ma serve solo a scatenare odio ed incancellabili orrori prima di meritarsi la conquista di una liberazione, bagnata nel sangue, che sappia resistere nel tempo… perché la libertà è un diritto divino ma anche un dovere degli uomini, da difendere senza più armi ma solo con il cuore in prima linea e carico d’amore.
In memoria alle 335 vittime innocenti, che per un’ignobile vendetta di guerra si sono visti strappare la vita per compensare la morte